Mescia Maria

Nonna Maria era la sarta per eccellenza di Felline. Conosciuta come “mescia Maria” , dove “Mescia” nel dialetto locale significa “Maestra”. Come era d’uso nei primi anni del ‘900, insieme ad un bel gruppo di ragazze, dette “discipule”, andava per diversi giorni in casa di chi le commissionava la confezione dei vestiti di tutta la famiglia, a quei tempi sempre numerosa. Questo avveniva in inverno, mentre d’estate nonna Maria, nonno Deodato e la figlia Candida si trasferivano a “le macchie” (termine che deriva dagli arbusti tipici della macchia mediterranea che ricoprivano i terreni incolti nelle vicinanze del mare) per dedicarsi al raccolto di ciò che offriva la terra, e in questo podere erano abbondanti capperi, fichi e fichi d’india, e anche altri frutti e ortaggi che nonno Deodato riusciva a coltivare in questa terra rocciosa e arsa.

Questo terreno, in origine, era pieno di pietre e con un piccolo “caseddhu” a secco (costruzione tipica del Salento) risalente al ‘700. Nonno Deodato, cominciò pazientemente il duro lavoro di spietramento e con le prime pietre divelte costruì un muretto a secco lungo i confini, lasciando però sempre un “varco” per passare nelle tenute dei vicini; poi costruì una “littera” ( costruzione a forma di parallelepipedo sulla quale venivano essiccati i fichi con l’ausilio di alcuni arbusti schiacciati chiamati “fumuli”, pianta che quando è secca viene fatta rotolare dal vento, sostituiti poi dai caratteristici “cannizzi”). 


Continuando l’opera di spietramento, costruì un altro caseddhu, più grande e più comodo del primo già esistente. Costruì inoltre un “puddharu” (pollaio) sotto un albero di fico, poi realizzò una costruzione senza tetto che fungeva da “bagno” e una grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Vicino al muretto a secco c’era u “focalire”, dove si accendeva il fuoco per cuocere la salsa di pomodoro; per la cottura veniva usato un grande recipiente in rame, il “quatarottu” e insieme alla raccolta dei capperi da conservare sott’aceto e ai fichi secchi, alla raccolta dei pomodori “a pennula”, dell’origano, dei peperoncini, d’estate si lavorava ogni giorno per riempire la dispensa per l’inverno.

Nonno Deodato terminò la costruzione del secondo “caseddhu” nel 1950, come segnato sull’architrave della porta.

Nonna Maria, nei pomeriggi, sedeva con altre vicine a ricamare sui sedili in pietra, mentre i ragazzini stavano ad ascoltare rapiti le varie storie, tramandate da generazioni, che venivano raccontate alla luce delle lampade a petrolio che nonno Deodato pazientemente accendeva tutte le sere al calar del sole. Storie di streghe e di santi, di “scazzamurreddhi” (folletti) e “tarantate”.

Nel Salento era molto viva la cultura del tarantismo, un fenomeno isterico convulsivo che colpiva chi veniva morso dalle tarantole, una condizione di malessere generale simile all’epilessia e all’isteria, che vedeva tra le sue “vittime” soprattutto le contadine. Secondo la tradizione popolare, per guarire dai sintomi del tarantismo bisognava sottoporre la “vittima” ad un rituale terapeutico, domiciliare o nella piazza del paese. Con tale rituale, che consisteva in ritmi cadenzati e formule magiche esorcizzanti, si riusciva a guarire chi era stato colpito dal morso. Nonna Maria aveva il terrore di essere morsa dalle tarante o dai serpenti, quindi nonno Deodato, per allontanare ogni paura della sua sposa, decise di intonacare i caseddhi dentro e fuori, rendendoli sicuri da ogni intrusione e bellissimi con il loro bianco splendore.